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Il dono dell’orso

26 Settembre 2012 | Non categorizzato

Orso nella faggeta - ph. B.D'Amicis

Un giorno di maggio

L’altra sera Lui è venuto. Erano già cinque o sei pomeriggi che io ero lì ad aspettarlo, appostato sotto un ginepro nell’anonima valletta al limite della faggeta. Le tante ore di attesa si facevano sentire, ma non mi ero mai annoiato. La prima sera un lupo, forse perso nei suoi pensieri, era passato a meno di dieci metri dalla mia postazione; ho seguito poi con attenzione le avvincenti schermaglie amorose dei cuculi, mentre ogni pomeriggio mi divertivo a scovare con il binocolo cervi, cinghiali, lepri, volpi e caprioli nelle radure circostanti. Anche quella giornata, fresca degli acquazzoni dei giorni precedenti, volgeva ormai al termine e un tramonto ancora diverso dagli altri colorava a chiazze le cime in lontananza. Dopo che il sole era sceso dietro la linea delle montagne e il succiacapre aveva iniziato a cantare, ho capito che anche quel giorno non sarebbe venuto e ho smontato l’attrezzatura fotografica, ferma da ore sul treppiedi. Peccato, avevo bisogno di Lui.

Così, mi sono alzato in piedi ed ho caricato lo zaino sulle spalle, volgendo un ultimo sguardo alla valletta. E proprio allora, così come vuole la tradizione, l’ho visto. Si muoveva lentamente tra i vecchi ginepri, il muso basso e il pelo dorato e lustro; bello e perfetto come tutte le cose buone di questo mondo.

Con le mani sudate e il cuore che batteva a mille, mi sono accucciato di nuovo, sfilandomi lentamente lo zaino e cercando di rimontare l’attrezzatura con tutte le precauzioni per non fare rumore. In venti secondi, la macchina e il teleobbiettivo erano di nuovo pronti e io, in punta di piedi, mi sono avvicinato. Le gambe mi tremavano, ma Lui era tutto intento ad annusare tra pietre e arbusti e il vento soffiava verso di me. Settanta metri… cinquanta… quaranta… quella sera volevo proprio passarla con Lui.

Più per abitudine che per reale necessità, mi sono nascosto sotto un prugnolo, ho piazzato il treppiedi, inquadrato l’immagine e premuto il pulsante di scatto. Lui ha sentito, si è fermato all’istante e ha rivolto il testone verso di me: troppo vicino. Le orecchie puntate nella mia direzione, il muso verso l’alto a fiutare l’aria (potevo sentire benissimo come sbuffasse) e i due occhietti marroni che apparivano piuttosto perplessi nell’oscurità che avanzava. Io, immobile e in apnea, ne attendevo l’ormai inevitabile fuga; furioso contro me stesso per la mia dannata impazienza e l’indecente hybris. Ma, invece di fuggire, Lui si è seduto, continuando a guardarmi. E, per una volta tanto, al suo cospetto ho provato qualcosa che potrei definire un antico e sano timore. Mi sentivo così piccolo e inutile, mentre Lui era così grosso nel mirino della mia macchina fotografica! Marrone scuro, quasi color cioccolato fondente sui fianchi e l’addome, con punte caffellatte sulla testa e il dorso, che a tratti si tingevano di crema per uno scherzo del crepuscolo. E, anche in quel momento di magia, io non ho saputo fare altro che scattare un’altra, dannata fotografia. Lui si è girato di lato, cercando in tutti i modi di non guardarmi. Allora, ho capito e ho abbassato sia lo sguardo che il teleobbiettivo verso terra; qualcosa come una debole corrente elettrica è passata e subito svanita tra noi due.

Subito dopo si è alzato e ha ricominciato a cercare da mangiare, muovendosi lentamente, ma con quel fare allo stesso tempo ramingo e risoluto che lo contraddistingue. Io lo seguivo a distanza, centellinando gli scatti della macchina per non infastidirlo e anche perché la luce era pressoché svanita. Mi ha ignorato, forse accettato. Per una volta ancora, racchiusi in questo rustico Appennino, eravamo soli Lui e io: tutto per me, il mio caro vecchio orso marsicano!

Finalmente stavo rivivendo questo vero miracolo italiano; forse, una delle cose più belle che ci siano al mondo. Pieno di gratitudine e rispetto, dentro di me ho sentito di dover benedire solennemente quei sacri momenti e mi chiedevo perché mai non mi fosse concesso di poterli vivere ogni giorno.

L’orso, probabilmente ignaro di quel mio impacciato misticismo, risaliva pian piano il pendio di fronte, ribaltando con eleganza le mastodontiche pietre lungo il suo cammino, e, quando né i miei occhi né la macchina fotografica riuscivano più a distinguerne la sagoma, l’ho salutato con la mano, dirigendomi rapidamente nella direzione opposta alla sua. Le mie gambe volavano sulle rocce; la testa era altrove. Avevo ancora parecchia strada da fare, al buio, per tornare alla mia automobile.

Un giorno di giugno

Di nuovo felicemente disperso tra le benevole cime calcaree della Marsica, seguivo a fatica un antico percorso che si inerpicava al cospetto di faggi centenari. Uscito dal bosco, la radura di montagna mi è apparsa in tutta la sua luminosa bellezza; il manto erboso verde intenso era qua e là punteggiato di enormi massi ribaltati, di un bianco abbagliante nella luce del pomeriggio estivo. In alcuni tratti l’erba era stata calpestata da un grosso animale; gli steli brucati in cima. Poi, un grosso e tozzo escremento color nero corvino, fresco e pieno di frammenti vegetali, ha aperto un mondo di possibilità. Ancora una volta sentivo di essere sui suoi passi, nel suo territorio e sapevo di essere un privilegiato. Mancavano almeno due ore al tramonto.

Mi sono seduto tra due grosse rocce e ho aspettato: la mia sagoma confusa con le ombre; il mio odore forse portato lontano dal vento. Piccole nuvole scorrevano veloci nel cielo; nel bosco, un colombaccio non la smetteva di tubare e mi distraeva dai pensieri. Un capriolo maschio, tutto fiero del suo bel pelame estivo, era uscito timidamente alla mia destra e ora pascolava nervoso a poca distanza da me.

Ogni tanto alzava improvvisamente il muso dall’erba, puntando le orecchie verso gli alberi alla fine della dolina, come in allarme. Speranzoso, seguivo con ansia e lievi scariche di adrenalina quei movimenti repentini e fissavo il bosco insieme al capriolo. Dentro di me, già pregustavo la comparsa di quella sagoma inconfondibile e la forte e salutare emozione che sempre la accompagnava.

Attesa, pensieri, stanchezza, speranza. La luce intanto svaniva e un’allodola cantava la fine del giorno, piccolissima nel cielo azzurro e più in alto di qualsiasi aquila. Ero grato che proprio quell’allodola fosse sfuggita ai cacciatori lo scorso autunno. Era tutto così bello, ma si era fatto troppo tardi e dovevo riscendere.

Mi sono alzato e, non senza dispiacere, ho fatto fuggire il capriolo, che già abbaiava lontano. Mettendo lo zaino in spalla, ho seguito con lo sguardo il sentiero che entrava nel bosco, scuro come la bocca di un grosso animale. Un leggero brivido mi ha percorso la schiena. Non era di certo la prima volta che attraversavo da solo la faggeta di notte!

Ho lasciato la radura e sono entrato tra gli alberi. Mano a mano che questi si infittivano, gli occhi facevano a fatica a distinguerne i contorni e le ombre sembravano più una proiezione della mia mente che cose reali. Ero costretto a tenere le pupille fisse sulle pietre del sentiero, ancora visibili, ma ero riluttante ad accendere la torcia, indugiando in quel mondo in bianco e nero, privo di riferimenti.

Passi, fruscii, il vento tra le foglie e lo squittire dei ghiri: la faggeta prendeva vita. Ogni rumore era per me un tuffo al cuore; ogni curva del sentiero, una barriera da superare. L’aria era fresca e, sopra la mia testa, le sagome nere dei faggi centenari si stagliavano contorte contro le prime stelle della notte. Ripassando accanto ad un vecchio ceppo, che avevo visto all’andata e che un orso alla ricerca di insetti aveva completamente distrutto a zampate, ho ripensato alle pietre ribaltate nella radura e ho percepito tutta la potenza di quella presenza e, di nuovo, quella corrente elettrica. Non era paura, ma una sensazione fortissima e primitiva, che forse potrei descrivere come un misto di attenzione massima, aumento delle capacità sensoriali, intensa comunicazione con l’ambiente e profondo senso di umiltà.

Mi sentivo tanto piccolo e il mondo intorno a me non sembrava più così scontato. Era strano, ma mi piaceva. Passo dopo passo, mi è stato chiaro che era qualcosa di importante, di raro e che veniva da lontano. E così l’ho assecondato: era il dono dell’Orso.

Era la sua semplice presenza, infatti, a stabilire i limiti di quei luoghi: vasti e eterni come la storia che raccontavano. Mi chiedevo cosa sarebbe stato di quella faggeta, di quelle montagne, senza più orsi. Chi altri avrebbe permesso di provare ancora quelle emozioni da cacciatori del Pleistocene a noi uomini del terzo millennio? Cosa altro avrebbe potuto ristabilire il legame dimenticato tra noi e il mondo selvaggio?

Cento, cinquanta o uno soltanto, non importa: purché ci sia ancora l’Orso.

Sarebbe stato bello, mi dicevo, far sentire quelle sensazioni ad altri; anche ai famelici “valorizzatori” di queste montagne, a chi può prendere decisioni importanti ma non lo fa. Sarebbe bello, sì, ma temo pochi capirebbero, perché so che il dono dell’orso è purtroppo passato di moda.

Un’ora e mezza dopo ero arrivato alla mia macchina, il bosco e la wilderness chiusi fuori dell’abitacolo. Più tardi, nel mio letto, il pensiero era tornato all’orso che, chissà, quella notte si muoveva sotto le stelle, ancora come una volta, e ho dormito serenamente, sapendo che non era un sogno.

 © 2012 – Testo e foto di Bruno D’Amicis – biologo e fotografo naturalista – www.brunodamicis.com